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Nucleare: decommissioning all’italiana

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La Sogin prevede di usare robot al posto degli operai. Ma servono tempo e soldi, tanti. E la tecnologia non è collaudata e manca ancora il deposito per le scorie Uscire dal nucleare non è semplice e in Gran Bretagna ne sanno qualcosa. Un rapporto pubblicato circa un anno fa dall’autorità britannica per il decommissioning, e per niente citato ai convegni dei filo nuclearisti nostrani, infatti, presenta una serie di cifre, per lo smantellamento dei reattori nucleari britannici di prima generazione, presenti in 19 siti, impressionanti. Per tornare alle condizioni precedenti all’installazione delle centrali atomiche fase che in gergo tecnico si chiama “green field” saranno necessari ben 61 miliardi di sterline, ma soprattutto molto tempo: oltre un secolo. Il caso più eclatante è quello della centrale di Calder Hall, la prima del Regno Unito, entrata in funzione nel 1956 e che è stata chiusa nel 2003, il cui sito sarà restituito alle condizioni originarie nel 2115: 156 anni dopo l’inaugurazione che vide il taglio del nastro da parte della Regina Elisabetta. E per gli altri siti la situazione cambia di poco, visto che le date di fine del decommissioning ruotano tutte attorno al 2100.

I tempi secolari per il decommissioning britannico è dovuto dalla scelta fatta dall’Esecutivo britannico dell’opzione di medio periodo tra le tre opzioni possibili per la gestione dell’ultima fase di vita delle centrali nucleari identificate all’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica (Aiea). La prima è quella dello smantellamento immediato, con tempi di alcuni decenni, la seconda quella differita, nella quale si arriva facilmente a cento anni aspettando il decadimento della radioattività e la terza quella della sepoltura del reattore che viene confinato, con la realizzazione di una struttura di contenimento e lasciato sul sito. La Gran Bretagna per lo smantellamento dei propri reattori ha scelto la seconda opzione, al fine di permettere agli operatori umani di lavorare con margini ragionevoli di sicurezza, ma aspettando, però, oltre un secolo.

Problema solo britannico? Non proprio. Anche in Italia, infatti, abbiamo un reattore nucleare Magnox da 210 MWe a Borgo Sabotino, entrato in servizio nel 1963, fermato dopo il referendum nel 1987 e che da allora è sottoposto all’attività di decommissioning. Sogin, la società che si occupa in Italia della gestione dei vecchi siti nucleari afferma che a Borgo Sabotino si raggiungerà il “brown field”, fase nella quale sono ancora presenti sul sito elementi radioattivi, ma con una ragionevole sicurezza, entro il 2019.

«La strategia adottata nel Regno Unito per impianti simili a quello di Borgo Sabotino è quella che adotta un lungo periodo di attesa, circa 135 anni, per consentire il decadimento della radioattività (a livelli accettabili tali da consentire l’attività umana N.d.R.) e procedere successivamente alla rimozione della grafite, con interventi manuali da parte degli operatori. – affermano da Sogin – Il piano di decommissioning, della centrale di Latina, prevede, invece, la rimozione della grafite con sistemi remotizzati, senza presenza degli operatori, soluzione tecnica che presenta un vantaggio in termini di costi e tempi». Già perché uno dei problemi di questo tipo dei reattori Magnox è l’utilizzo della grafite come moderatore cosa che ha prodotto negli anni d’esercizio 2.200 tonnellate, 1.600 m3 di grafite altamente radioattiva. «La tecnologia robotizzata per il decommissioning dei reattori nucleari è ancora tutta da sperimentare e ci sono forti dubbi sul suo effettivo funzionamento sul campo. – afferma Alex Sorokin, progettista di centrali nucleari convertito alle rinnovabili – Se però avrà successo ciò potrebbe aprire un capitolo interessante per Sogin che avrà un mercato sicuramente vasto nel settore del decommissioning, visto che nei prossimi anni si dovrà procedere allo smantellamento di oltre 200 reattori nucleari in tutto il mondo». Insomma il vero affare potrebbe essere quello di smontare le centrali atomiche anziché realizzarle e a dimostrazione di ciò ci sono i conti, parziali, dell’uscita dal nucleare dell’Italia: oltre 5 miliardi di euro per quattro reattori e altrettanti centri logistici e di ricerca, solo per arrivare al “brown field”. In attesa che si trovi il luogo adatto per il deposito nazionale delle scorie, sui cui costi di gestione ancora non si sa nulla.

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