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Zuckerberg come Cortés

Siamo felici e contenti dello sbarco del nuovo colonizzatore Mark Zuckerberg che realizza per noi nuovi recinti

Zuckerberg
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«Siamo venuti per servire Dio, il Re e anche per diventare ricchi», con questa frase di Bernal Diaz del Castillo, il cronista della spedizione di Hernán Cortés si potrebbe commentare la visita di Mark Zuckerberg. Ma ci si deve chiedere come mai in Italia, terra  d’infinite discussioni su tutto, non si discuta dell’egemonia culturale ai tempi del web che in Zuckerberg trova la massima rappresentazione.

Eppure l’occasione sarebbe ghiotta. Mark Zuckerberg, il fondatore e proprietario assoluto di Facebook ha fatto visita in Italia ricevuto come un capo di stato e con una risonanza da parte dei media, tranne alcune eccezioni, legata a un doppio filo di sudditanza. Uno sbarco in puro stile coloniale con tanto di benevola accoglienza da parte degli indigeni.

Cosa che si è tradotta in nessuna domanda ammessa da parte dei giornalisti durante la sua discussione con gli studenti e poche e retoriche dichiarazioni a uso degli organi d’informazione. Insomma una visita spot a senso unico che pone qualche domanda.Sull’Italia e sull’Europa.

Ma andiamo con ordine. Su quella che venti anni fa era considerata una “rivoluzione” informativa, ossia il web – e chi scrive se lo ricorda bene visto che la mia mail originaria e tutt’ora attiva mc1567@mclink.it è del 1990, oggi si stanno costruendo recinti.

Magari chiamati algoritmi, ma pur sempre recinti. E il Facebook di Mark Zuckerberg ne è l’esempio meglio riuscito. Il social network a stelle e strisce – teniamolo a mente – infatti si pone come una prateria vasta, con 1,7 miliardi di utenti tra i quali “pascolare”, ma pur sempre recintata. Con regole, sconosciute ai più ma precise e con un denominatore comune.

Ossia si può scorrazzare, entro ben determinati limiti sia pur chiaro, ma portando oggetti e producendo valore all’interno. Solo in questa maniera si viene “premiati”, se no in alternativa c’è l’oblio, magari discreto, ma pur sempre l’oblio.

E se ciò accade in un momento culturale nel quale la conoscenza – e attenzione uso il termine conoscenza e non informazione – è sinonimo di democrazia, potremmo dire che “Huston abbiamo un problema“.

La gestione della conoscenza da parte di Facebook infatti, oltre essere definita con un approccio che potremmo al massimo definire da “monarca illuminato” e dico al massimo, sia ben chiaro, ha anche un’altra caratteristica: è univoca per tutta l’indistinta platea degli utenti di Facebook a livello mondiale.

A quanto ne sappiamo, infatti, la logica di circolazione della conoscenza prodotta dagli utenti, professionali e no, è uguale per tutti, con qualche differenza, forse, per questioni religiose.

Facebook, infatti, interpreta, in negativo, lo slogan caro agli ecologisti “locale è globale” invertendolo in “globale è locale”, cosa che è particolarmente evidente per quanto riguarda l’Europa. Ma il discorso si può allargare anche agli altri social che sono tutti rigorosamente “made in Usa”, per dirla come la direbbe il Boss, Bruce Springsteen.

Appare sconcertante, infatti, come l’Europa non si ponga minimamente il problema dell’influenza e dell’egemonia culturale su un cambiamento così radicale come quello della gestione della conoscenza nella sua totalità.

I social e i motori di ricerca, infatti oggi, agiscono come “distributori” della conoscenza, compresa quella prodotta dalle persone singole secondo logiche che in primo luogo non sono chiare, trasparenti, ma soprattutto che non rispondono alle esigenze e alle logiche sia delle collettività europee sia dei singoli individui.

Faccio qualche esempio per spiegarmi meglio. Durante la Cop 21 sul clima non ero a Parigi,ma dietro alla mia scrivania ad analizzare articoli esteri, fondamentalmente dal New York Times e da Guardian, e flussi di “conoscenza” autoprodotta e distribuita su proprie piattaforme e sui social network, specialmente Twitter.

Esaurito l’evento mi sono trovato a leggere per qualche giorno le versioni on line dei due quotidiani per poi far diventare la mia lettura principale ogni mattina, ancora prima di quelli italiani, il Guardian.

Successivamente mi sono chiesto: perché il Guardian? Semplice rispetto al NYT il quotidiano britannico è più empatico e interessante per un europeo, mentre il NYT è troppo distante.

Quindi perché l’algoritmo che “guida” le nostre ricerche in rete, ci fa visualizzare i contenuti sui social, o ci consiglia gli acquisti on line non dovrebbe esserci altrettanto estraneo? In realtà lo è, solo che non ce ne accorgiamo perché non possediamo un termine di paragone come tra il Guardian e il NYT.

E cosa ancora più grave, non ne sentiamo nemmeno la necessità. Abbiamo perso la consapevolezza, o forse non l’abbiamo mai avuta, di una gestione autonoma della conoscenza. E questo è un problema non solo per l’informazione, ma anche per l’economia.


Per inciso ecco cosa sono i fatturati dei social network secondo eMarketer. Fonte:  Pier Luca Santoro/Data Media Hub.

“eMarketer estimates that Facebook will take in $22.37 billion in net ad revenues this year, up from $17.08 billion in 2015. Most of those revenues—$12.08 billion this year—will come from outside the US”.

Facebookcrazia

Tradotto in Euro: Facebook nel 2016 ha fatturato in pubblicità 20,07 miliardi di euro. Oltre un punto di Pil dell’Italia.


Vi interessa che approfondisca questi argomenti? Allora manifestatevi date un segno, un commento o una condivisione (ossia una forma di distribuzione) saranno un segnale gradito.


Il giornalismo è un ecosistema della conoscenza. E allora perchè non rendere credito alle fonti? Ecco ciò che ho letto prima di scrivere questo pezzo. 


Il primo pezzo di Luca De Biase sul suo Bolg

Il secondo pezzo di Luca De Biase sul suo blog

Il pezzo di Cristian Raimo per Internazionale

Il pezzo di Giovanni Scrofani sui social e sul web 

Perchè Tim Barners-Lee non è amico di Facebook dal Guardian

Il pezzo “controcorrente” di Fabio Chiusi sul Mattino di Padova

L’articolo su Valigia Blu su Tim Barners-Lee

Il pezzo di Valigia Blu su Google e l’Europa


Ringrazio:

Andrea Iannuzzi per la segnalazione su Facebook del pezzo di Fabio Chiusi

Pier Luca Santoro per l’infografica sulla pubblicità sui social

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